Pd, Titanic
Qualcuno, dalle pagine di Rosa Rossa, ha indicato nel disimpegno l’unica via d’uscita dalla crisi nel quale si è incagliato il Partito Democratico in Sardegna. Lo dico subito: la diserzione non è una soluzione, ma una fortissima tentazione per molti militanti del Pd. Una tentazione che sale del popolo degli astensionisti, pervade come una marea nera il popolo dei refrattari e rischia di investire gli ultimi militanti abbarbicati sotto la torre dove intrepidi soggiornano i Dirigenti, i Consiglieri Regionali, i deputati, i senatori e il Segretario più una pletora di ex Consiglieri ed ex parlamentari.
L’analisi sullo stato di salute del Pd sardo non può che essere impietosa e non sono bastati i risultati, variamente positivi, delle elezioni amministrative del 30 e 31 maggio, a rimettere in sesto il moribondo. La guerra per bande non si è fermata: ex democristiani, ex comunisti ed ex socialisti si contendono il comando. I primi minacciano, ad ogni piè sospinto, di abbandonare il partito avendo, rispetto ai compagni di viaggio, più di un’alternativa che va dal terzo polo, alla confluenza nell’UDC o in gruppuscoli post democristiani, fino al cambio di campo verso il Centrodestra. Ex comunisti ed ex socialisti, che da sempre mal si sopportano, tentano, ognuno per proprio conto, azioni egemoniche all’interno del gruppi dirigenti alleandosi di volta in volta con pezzetti della galassia cattolica confluiti nel Pd: tutti insieme più voraci di una muta di cani. I termini degli accordi sono sempre altissimi: “si, ma a noi cosa ci spetta?” e quelli “ se a noi spetta il Sindaco, a voi toccano due assessorati!” e affare fatto.
In ogni Provincia sarda poi, lo schema è diverso e anche le menti più acute hanno difficoltà ad avere chiara la geografia e la morfologia del soggetto politico che dovrebbe guidare il Centrosinistra e l’opposizione a una destra dilaniata dagli scandali e dall’incapacità di governare la Regione. Come se non bastasse a questa drammatica fotografia, mutuata dal Pd nazionale, si aggiunge in Sardegna la distinzione fra soriani e antisoriani, fra sostenitori intrepidi dell’ex Governatore e suoi, altrettanto strenui, detrattori. Guelfi e Ghibellini, all’infinito in una lotta incredibile a chi sia più puro, a chi abbia ragione, a chi sia più coerente. Preso atto che questa divisione c’è, esiste e, nello spirito dei contendenti, appare insanabile al normale militante democratico viene spontanea la domanda: ma su cosa hanno litigato? Su cosa si sono spaccati? Su cosa si sono divisi?
A sentire gli uni, i soriani, un gruppo di potentissimi dirigenti ha minato dall’interno, con continue azioni di disturbo, la prima e unica esperienza di governo realmente progressista e riformatrice che questa Regione abbia conosciuto negli oltre sessanta’anni di Autonomia. A sentire gli altri, gli antisoriani, durante l’esperienza di Governo regionale si è sfiorata la dittatura allorquando il Presidente della Regione voleva diventare anche segretario del Partito. E continuano, gli uni, che il presidente, vistosi assediato, da tentativi neoconservativi ha deciso di scendere in campo anche per la guida del partito e a sentire gli altri le dimissioni, del dicembre 2008, miravano a spazzare via un’intera classe dirigente che ha consentito la nascita del Pd in Sardegna. Così, all’infinito.
Al normale militante democratico rimane in testa, credo, solo una grandissima confusione, il dubbio recondito che i motivi della rottura siano stati altri, mai conosciuti dai comuni mortali, e che forse riguardano gli assetti di potere all’interno del mondo economico, imprenditoriale e bancario. Motivi comunque che vanno oltre alla mera azione di Governo e sono del tutto estranei all’impianto ideale e programmatico che dovrebbe essere l’elemento qualificante di un Partito che stava allora vedendo la luce.
Questo articolo, tuttavia, non serve ad alimentare dietrologie vane. Serve, se è possibile, a tentare di sciogliere qualche nodo, a districare una matassa assai ingarbugliata. Le cose che scrivo, non le scrivo per spirito di contraddizione, per polemica o invidia. Dico quel che dico per l’amore che porto per il mio partito, per la mia militanza e per l’affetto sincero che ho nei confronti dei Dirigenti e dei militanti democratici. È sotto gli occhi di tutti, che il Partito nel suo complesso, né negli organismi dirigenti né nel dibattito pubblico, abbia mai affrontato con serietà l’analisi dell’esperienza di Sardegna Insieme dal 2004 in poi. Siamo solo stati capaci di creare gruppi ultrà, ma senza approfondire cos’abbia significato quell’esperienza di governo per i sardi e la Sardegna, come abbia influenzato concetti altissimi come quelli dell’Autonomia, della Sovranità o dell’Indipendenza, cos’abbia determinato in relazione al rapporto uomo, economia e ambiente, come abbia influito sugli interessi collettivi e su quelli soggettivi, su come abbia tentato di invertire il vortice centripeto che porta alla desertificazione umana delle aree rurali della Sardegna, come si sia posto nell’affrontare disuguaglianze nuove e vecchie che squassano la nostra società. Non c’è stato questo dibattito e se ne pagano ancora oggi le conseguenze. Il dibattito si è drammaticamente arenato nell’impedire la ricandidatura di alcuni Consiglieri regionali che avevano fatto due Legislature consecutive e sulla pressapochistica analisi che “le cose che la Giunta Soru ha fatto erano giuste, era il metodo sbagliato”.
Così come, a seguito della vittoria nei ballottaggi per le province, si è pensato a festeggiare e non a chiedersi chi sia il “refrattario democratico”, colui che diserta le urne, che schifato per il malaffare della destra non trova naturale rivolgersi al Pd o comunque al Centrosinistra. Nel nostro Partito si è preferito cantar vittoria anche quando, come a Cagliari, ha votato il 25% del corpo elettorale ed il presidente è stato eletto con il 13% degli elettori che avevano diritto. Il Pd sardo, i gruppi dirigenti avrebbero dovuto aprire un dibattito pubblico (non solo quelle noiosissime riunioni) allargato a studiosi e intellettuali, studenti, amministratori locali, lavoratori, imprenditori per tentare di capire cosa si agita nella società sarda, cosa la rende indocile, a tratti incomprensibile. I nostri dirigenti invece hanno preferito ballare e bere champagne, esattamente come sul Titanic prima dello schianto. Nessuno ha voluto guardare nella pancia della società, per valutare se la qualità della democrazia che offrono le istituzioni e i partiti sia minimamente in linea con le aspettative dei cittadini, per verificare come mai la democrazia rappresentativa sia in perenne e costante discesa nel gradimento della gente. Non si è sentito nessun nostro Dirigente mettere in relazione diserzione elettorale e crisi economica quasi che le dinamiche sociali siano estranee rispetto a quelle politiche. Una crisi che fa sussultare una società come la nostra, che divide in maniera netta fra giovani e anziani, fra garantiti e precari, fra ricchi e poveri. Una crisi economica che si è mangiata in un boccone la middle class, che ha fatto abortire la prospettiva di un futuro migliore per i figli rispetto al presente dei padri, che ha stroncato la mobilità sociale impedendo al figlio dell’operaio di diventare dottore. Su questi temi il silenzio del Pd, molto meglio confrontarsi sugli appellativi: amici o compagni. Meglio scannarsi per gli assetti interni di una Giunta, per una candidatura, per la Presidenza di una Provincia. Meglio affilare i coltelli in vista del prossimo Congresso. Meglio tessere alleanze e contare le tessere: l’insostenibile pesantezza delle tessere.
Il Partito che tanti come me, che hanno iniziato a fare politica con l’Ulivo, volevano contribuire a costruire sarebbe dovuto essere un partito riformista, ma non moderato, un partito che cercasse sempre il dialogo, ma che rifiutasse il compromesso. Un partito laico, progressista, aperto, solidale, etico, includente, fieramente antifascista, popolare, di massa.
Un partito che attraverso la promozione del bene collettivo esaltasse i singoli talenti individuali. Un partito che non pensasse che la sua unica funzione sia quella di amministrare il potere, ma quello di porsi come guida culturale e morale di questo paese. Un partito che mirasse a riunificare una nazione devastata dalla grande anomalia del berlusconismo e dalle forme nuove di fascismo strisciante.
Un partito che dialogasse con la Chiesa, ma che pretendesse in maniera chiara e netta l’autonomia e la laicità dello Stato. Un partito nuovo che promuovesse forme di partecipazione aperte per la formazione dei quadri dirigenti. Un partito maggiormente colorato di rosa, con una presenza forte delle donne al proprio interno e nelle candidature alle cariche elettive.
Un partito con una leadership scelta dal basso e non da pochi notabili. Un partito che desse serenità e la sicurezza al cittadino elettore che il bene collettivo non si contrappone al bene personale, ma lo esalta e lo integra. Un partito che mettesse al centro del proprio orizzonte politico il lavoro, la sua promozione e sicurezza. Un partito che fosse portatore dei valori della pace e dell’amicizia fra i popoli.
Un partito che lottasse realmente contro tutti i fenomeni criminali e mafiosi rifuggendo come la peste da qualsiasi ipotesi di “pacifica coesistenza”. Un Partito che avesse l’Europa come centro e motore delle proprie politiche. Oggi cosa resta di tutto ciò? Poco, pochissimo. Quasi nulla.
Che fare, allora? Disertare anche noi? No, non credo che la soluzione sia questa. Anche se la tentazione è drammaticamente forte. Io credo che la soluzione sia il coraggio. Un coraggio che deve invadere tutti i militanti per dire, finalmente, ai nostri dirigenti che le loro guerre non sono le nostre. La nostra guerra, quella vera, quella utile, è la guerra per costruire un Partito che serva davvero alla Sardegna. Un partito che assorba le istanze che salgono prepotenti e silenziose dalla società e le trasformi in “utopie concrete”, in fatti concreti che migliorino la qualità della vita delle persone, che contrastino le disuguaglianze, che affermino diritti vecchi e nuovi. Se facciamo questo sono convinto che il corpo vivo del Partito troverà al suo interno le ragioni vere dell’unità e della concordia che si basino sui valori ideali e non sull’appartenenza a gruppi o gruppetti, anche perché, come diceva qualcuno, “la vera libertà non sta nello scegliere fra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta obbligata”. Sottraiamoci alle scelte di altri, che non ci appartengono e troviamo davvero la via che porti alla costruzione del Partito Democratico in Sardegna. Una via che aiuti a costruire migliaia di nuove agorà, luoghi dove la democrazia si esercita realmente, una “democrazia di periferia” che innervi la nostra regione, paese per paese, luogo per luogo, strada per strada, quartiere per quartiere. Una via autenticamente autonoma e libera da condizionamenti estranei alla stragrande maggioranza dei militanti democratici. Una via che ci consenta davvero di rappresentare per la società sarda l’alternativa alla destra del malaffare e del malgoverno.
EMILIANO DEIANA
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